Questo racconto fa parte del diario di viaggio a puntate scritto da Giancarlo Cotta Ramusino (in arte Girumin) che viene pubblicato in queste settimane. Potete leggere tutti i racconti già pubblicati nell'apposita sezione
Viaggio con la GOAT.
Un nuovo giorno in Graziella
Ci sono forse delle strade secondarie che mi eviterebbero un’infame salita nell’ora più calda del giorno, ma io non ne azzecco neanche una.
Todi è la città di Jacopone da Todi, ma... Jacopone era un poeta o un soldato di ventura? Raggiungo Acquasparta e cerco di capire da che parte andare per salire alla
Romita di Cesi, spero di trovare qualche indicazione. È un gran bel posto, penso che ci siano dei cartelli turistici, ma non è così.
Devo orientarmi, come posso fare? In questi casi
il Manuale delle Giovani Marmotte e i Survival’s Handbook direbbero di cercare il muschio sugli alberi, di seguire l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore, la cintura e la spada di Orione. Io però sono in mezzo all’asfalto e nel pieno del pomeriggio. Dove trovo il muschio, Orione e la Stella Polare? Non so neppure se si vede Orione in questa stagione! Ci sarebbe anche la Croce del Sud, ma è da un’altra parte. E poi io devo andare a sud mentre tutti i sistemi di orientamento naturali indicano solo il nord, come faccio a calcolare l’azimut reciproco basandomi sul muschio? I metodi naturali indicano una sola direzione, dovrei forse seguire sempre quella, ma lo sanno tutti, anche il Piccolo Principe dice che
dritto davanti a sé non si va molto lontano. L’azimut funziona nelle distese sconfinate, nelle infinte praterie, negli aridi deserti. Il Sahara, il Kalahari, i Salares, l’
Outback australiano e il Taklimakan:
la terra del non ritorno. Se andassi all’azimuth in Italia finirei dentro una roggia o in casa di qualcuno dopo pochi metri. Potrei però cercare il nord con l’orologio. Certo! È una buona idea. No, è da una vita che non porto al polso un orologio. Tristan Gooley nel suo libro
L'antica arte di trovare la strada dice: "
C'è una differenza tra trovare la direzione e conoscere la direzione”.
Questo però è un grande dilemma che da sempre affligge l’umanità e non sarò certo io a risolverlo. No, non credo di poterlo fare.
Chiedere è sempre meglio
Ecco l’idea: chiedo a qualcuno! Forse non lo sapete, ma sono stati fatti degli studi sul come chiedere indicazioni, studi fatti da chi? Come “Da chi?”, da me! Li ho però messi in un altro libro e quindi adesso non ne posso parlare. dice: “Una cosa si può dire, si può parlare di come chiedono indicazioni i maschi e di come chiedono indicazioni le femmine. I maschi scelgono la strada più semplice, non chiedono e basta. Vanno avanti e indietro, si perdono, finiscono la benzina e poi ne dicono di tutti i colori a chi ha scritto la guida o gli ha dato indicazioni. Magari dicono anche che la carta è sbagliata. Le femmine... Non lo so, non posso sapere tutto io. In quale occasione un maschio e una femmina chiedono indicazioni assieme? È ovvio, quando vanno al matrimonio di un amico o di un parente. Arrivano all’incrocio e nessuno dei due ha capito dove stanno andando e soprattutto dove si trovano, il maschio inizia a imprecare sostenendo che sarebbe stato volentieri a casa sul divano con una lattina di birra in mano a guardare la partita ruttando liberamente, la femmina dice che il suo “ex” avrebbe già trovato il posto. No, in realtà non lo dice, ma lo fa capire... Dopo due ore che girano a vuoto... La femmina a un incrocio, tira giù il finestrino...
“Scusi signora, noi dovremmo andare a un matrimonio, si sposa mia cugina, saprebbe dirmi dove si trova il ristorante “Belvedere”?”.
“Ah, sì, il “Belvedere”, siamo stati l’anno scorso per il matrimonio di mia figlia... O di mia nipote? Che caldo che faceva. E poi a me il vestito di lui non mi piaceva, lei aveva un bel vestito bianco, un classico. È venuta giù anche mia cugina da su ed è venuto su lo zio Pino da giù... Teresa ti ricordi il ristorante l’anno scorso?”. Mentre si rivolge all’amica...
Il maschio sta rischiando una sincope e vorrebbe strozzare le tre donne...
La femmina: “Sì, anche mia cugina ha un vestito classico, io le ho dato una mano per cui l’ho già visto”.
Il maschio ha le pupille iniettate di sangue, stringe il volante con tutte le sue forze perché non sa dove scaricare la sua ira e comincia a emettere leggeri grugniti.
La signora: “Certo è un gran bel posto...”.
“Quindi mi sa dire dov’è il ristorante “Belvedere”?”.
“II “Belvedere”?”. No qui non c’è il ristorante Belvedere, se volete ce n’è uno più su, sulla collina, ma si chiama... Teresa come si chiama il ristorante dove siamo stati anche il mese scorso?”. “Non so, forse “Il paiolo”...”.
La femmina: “Grazie signora”.
“Comunque se volete vi dico per arrivarci...”.
Digressione sul navigatore vivente
Nei lunghi viaggi il navigatore ha un ruolo di primaria importanza, soprattutto all’estero e nei paesi in cui si sta sulla sinistra della carreggiata. Onde evitare che latiti... e non si assuma le proprie responsabilità possono servire alcune indicazioni. Io, per evitare inutili malintesi, ho piazzato davanti al posto del passeggero le indicazioni per il navigatore, così chi sale in auto sa bene quali sono i suoi compiti. È frutto di uno studio fatto tanti anni fa con David e Francesco, l’ho poi aggiornato e adattato al codice della strada. Sono queste.
Il navigatore:
1. Siede alla destra del conducente. (Non in tutti i paesi...).
2. Non dorme!
3. Mantiene vigile il conducente.
4. Fornisce, aiutandosi con ogni mezzo, costanti indicazioni sul percorso.
5. Appronta i pagamenti, i pedaggi e annota le spese.
6. Gestisce la strumentazione di bordo (condizionatore, navigatore satellitare, radio, radio ricetrasmittente, telefono cellulare...).
7. Verifica le scorte e ne cura il reintegro.
8. Presiede alla disciplina, al decoro e alla pulizia.
9. Segnala ai passeggeri le curiosità lungo il percorso.
10. Conserva la documentazione e aggiorna il diario di bordo.
Ognuno ha un proprio concetto di “vicino” e di “lontano”. Una volta ha chiesto a tre indios quanto distava la città più vicina, gli hanno risposto “venticinque”, “sette” e “quarantotto” chilometri.
Attraverso Acquasparta
Pomeriggio afoso nel west, landa deserta, terra arida, il sole alto nel cielo emana una luce bianca che rende impossibile tenere gli occhi aperti, chilometri e chilometri senza anima viva, il solo segno di vita sono quei pochi cespugli spinosi ai bordi delle strade. Vecchia pompa di benzina, il vecchio dorme seduto sulla sedia a sdraio col cappello abbassato sugli occhi, il cartello arrugginito che cigola è l’unico segno di vita.
Neppure i coyote vanno a caccia in queste condizioni, i serpenti a sonagli se ne stanno rintanati sotto la sabbia. Un rombo da lontano annuncia l’arrivo della moto, l’unica che passa da giorni sulla strada malconcia e polverosa. Si ferma, il centauro scende, spegne il motore e si guarda intorno. La sua sagoma si staglia contro il sole all’orizzonte: pantaloni e giubbotto di pelle, stivali da cow-boy eredità e tradizione dei pionieri del west, si avvicina al vecchio che neppure alza il cappello: “Scusi, per la Romita di Cesi?”. La scena starebbe bene in Arizona, tipica zona del vecchio west, ma a me piace di più il Wyoming, perché la parola “Wyoming” dà più soddisfazione.
Prova a dirlo: la bocca si contorce per esprimersi, è una parola che circonda tutte le vocali, come quando a scuola la maestra ti faceva dire la parola “aiuola”. Mentre correggo questo testo vedo che anche Kameel Nasr ha iniziato il suo racconto del viaggio intorno al mondo proprio parlando del Wyoming. E poi non è come il Maine della signora Fletcher, la signora in giallo, dove non succede mai niente per cui lei è costretta a girare l’America e ogni volta che si presenta succede qualche disastro. Torniamo a noi. Il benzinaio conferma la strada, mi dice di passare da una zona archeologica, cita il nome, ma lo dimentico subito. Vado dritto lungo la strada e spero di trovare qualche segno. Vedo un paese sulla sinistra a mezza montagna e mi viene il dubbio che forse dovrei passare da quello, ma preferisco restare sulla strada principale.
Ora sarà vera montagna
Pedalo e pedalo fino a quando appare sulla sinistra una strada sterrata. Mi avvicino e trovo un cartello un po’ alla buona che indica la Romita, mi guardo intorno e vedo arrivare un’auto della Polizia Locale, chiedo indicazioni e mi confermano che la strada è giusta. È giunto il momento.
Ora sarà vera montagna, uno sterrato non proprio adatto alla Goat! È pensando a questo tratto che ho studiato la possibilità di renderla adatta alla montagna. Sono le quattro e inizio a salire, sarà dura spingere bici e carrello fino alla Romita, una salita difficile, spero solo di non arrivare tardissimo. La strada non sarà breve e non sarà facile, ci sono già stato in passato e ho faticato parecchio la scorsa volta sull’altro versante, ma sono deciso ad arrivare. Spero di riuscire a pedalare almeno un briciolino, ma so che è un sogno più che una speranza. Questo è il momento in cui dovrei caricare la bici sul carrello, ma forse non ce n’è bisogno, provo a salire senza particolari elaborazioni del mezzo. Che fare? Spingo.
Dopo cinque minuti vedo che ho perso il coprisella, provo a tornare sui miei passi per un centinaio di metri, ma non lo trovo, chissà quando se n’è andato per suo conto, non posso tornare indietro a cercarlo, ne farò a meno.
Incontro una seconda auto dei vigili urbani. Ci sono problemi di viabilità su questa strada oppure mi stanno pedinando, ma non troppo bene? La salita si fa più ripida, non sarebbe difficile per un camminante, forse neppure per un ciclista allenato con una buona bici da montagna, ma nelle mie condizioni è un’impresa, la forza applicata sulla bici non viene molto considerata dal carrello, ogni minimo sasso diventa un tremendo ostacolo. È una salita da conquistare veramente “passo dopo passo” e ogni passo va ben calibrato. La salita è costante, per almeno mezz’ora non posso mollare la spinta neppure per un istante.
Se fossi furbo sgancerei bici e carrello per portarli separatamente, ma sono in una di quelle situazioni in cui il prossimo minuto di sofferenza sembra l’ultimo. Uno di quei momenti in cui, forse, dopo, la strada sarà più bella, quindi non vale la pena di scaravoltare tutto. Invece dopo il successivo minuto la situazione non cambia, però pensi la stessa cosa per il minuto ancor più successivo... II problema è che tutta la forza applicata alla sella e al manubrio finisce dispersa di qua e di là, perché il vero peso è sul carrello, in alcuni punti tiro la bici senza neppure tenere le ruote a terra, tiro tutto come se fosse un sacco di patate. È impossibile spingere sul manubrio, lascio quindi la bici distesa e tiro dal telaio o dalla ruota davanti. Se l’insieme appoggiasse in equilibrio senza ribaltarsi farei meglio a spingere, ma non è possibile con una cosa deforme come la mia ferraglia che già fa fatica a stare in equilibrio quando la guido con me sopra... Sarebbe più comodo un triciclo per anziani, prima o poi partirò con uno di quelli, non l’ho ancora fatto perché costano un sacco e non si trovano fra i rottami.
La riflessione sul fatto di tirare un peso oppure di spingerlo va tenuta in considerazione nel momento in cui si sceglie dove piazzare le borse della bici, se nella parte anteriore o in quella posteriore. Il peso davanti è scomodo perché sbilancia il carico e rende difficile la gestione dello sterzo. Quello dietro si porta meglio, lascia la bici più in equilibrio e si agganciano meglio le borse ai portapacchi. In teoria però è meglio spingere piuttosto che tirare, infatti si stanno sviluppando meglio le bici da viaggio studiate per portare il carico davanti.
Chi partecipa all’Iditaroad Trail in Alaska o al Tour Divide dal Canada al Messico porta molto carico anche sul manubrio.
Chissà se un giorno parteciperà anche la Goat. Temo di no... Qualche anno fa cercavo una
bici da cicloturismo, navigavo sui siti delle marche più prestigiose e trovavo modelli interessanti. Evitavo di guardare i prezzi per non farmi venire un colpo al cuore. Quando vedevo una bici interessante scoprivo che era venduta solo in Olanda, solo in Benelux, solo nel Nord Europa... Perché?
Gli italiani non possono comprare una buona bici da cicloturismo? Bisogna riconoscere che se nessuno le compra i costruttori stranieri non le importano. Però qualcosina sta cambiando, il cicloturismo di lungo corso si sta sviluppando un pochettino di più anche in Italia. Forse per via di una maggiore sensibilità, forse per via di un minor portafoglio, che stimola le vacanze più economiche.
La Romita di Cesi
La Romita è un luogo protetto dalla natura, uno dei posti in cui per andarci devi essere convinto. Se così non fosse saresti portato a pensare che sia un posto come gli altri, un posto da visitare e non un posto da vivere. È giusto quindi che per arrivarci si debba fare fatica. Quando arrivi alla Romita hai subito la sensazione di aver fatto un salto nel tempo. Ti sembra di essere in un luogo in cui il tempo si è fermato. Ti senti pienamente immerso in un’atmosfera diversa in cui regnano il silenzio e la meditazione. Ti accorgi che vieni coinvolto da qualcosa che ti avvolge, hai la sensazione che ciò che ti circonda ti voglia parlare.
A proposito di racconti torniamo alle vicende di Roberto in Kenia.
Durante la mia permanenza a Naudot, nelle fantasie visionarie delle ore passate a sudare in quelle buie capanne, inizia a farsi sempre più forte la voglia di tornare a Kajiado a piedi attraverso la savana e le montagne. Ne parlo con i Masai e vedo le più svariate reazioni, dallo stupore del perché un “muzungu” voglia andare a piedi (sicuramente ha i soldi perché allora non paga una mototaxi?), all’ilarità, alla ricorrente frase: “È impossibile, tu non ce la fai! È troppo distante, ti perdi di sicuro perché non c’è strada, morirai di sicuro, perché sei un muzungu, quindi sei più debole e incapace!”. Al crescere di queste affermazioni si fa sempre più assillante la voglia di buttarmi nell’avventura!
Studio il territorio circostante per capire come muovermi. Attraverso osservazioni, supposizioni e domande ai Masai arrivo a stabilire che Kajiado è esattamente in direzione est. Studio il movimento del sole e la sua ombra per costruirmi una bussola solare, ovvero un cerchio di carta nel mio quadernino con disegnato l’angolo proiettato dall’ombra di un mio bastone, rispetto all’Est. Individuo i punti di riferimento che mi possono aiutare a determinare la mia posizione. Affilo il coltello e preparo quattro litri d’acqua. Ho capito
quali bacche e piante selvatiche si possono mangiare:
nessuna! Son tutte tossiche o velenose (no, in realtà la buccia di un frutto si può mangiare, ma fa schifo!). Poi, una mattina all’alba, saluto tutti e parto; tentando l’azimut mi incammino nel mio hike personale. Attraverso la savana, tra cespugli spinosi che a volte creano muri insuperabili, di buon passo in un po’ di ore arrivo ai piedi delle montagne. Punto il cucuzzolo più alto in direzione est e inizio l’ascesa, che presto diventa scomoda e difficile, dato che le pendici sono rivestite da una fitta boscaglia spinosa, di spine forti e acuminate, capaci di strappare facilmente i pantaloni e penetrare negli scarponi. Pian piano, mentre cerco di districarmi nello
spinoso labirinto, individuo una
forra secca in quella roccia magmatica e ovviamente non resisto all’idea di risalirla. Il percorso tra i massi e rami bassi si fa sempre più difficile, finché mi costringe ad abbandonare lo zaino per strisciare più agilmente. Non so perché la risalgo, credo per soddisfare un impulso viscerale di esplorare.
Quando arrivo a sentire i gridi di allarme dei babbuini, decido di tornare indietro perché in fondo mi sembra di violare un territorio dal quale l’uomo è, giustamente, escluso. E così, dopo 5-6 ore di cammino, giungo in cima al cucuzzolo e mi godo la gioia di una immensa visuale a 360°. Mi siedo e gusto le nocciole e le arachidi che ho portato con me, bevo e lascio che l’orizzonte mi svuoti. Ora inizia la parte più difficile, perché devo trovarmi dei nuovi punti di riferimento per giungere in un luogo che non son nemmeno sicuro di aver correttamente individuato dalla vetta.
Una volta disceso dal nuovo versante riparto nel labirinto piatto di erbe alte e secche, e cespugli spinosi, in cui, visto che mi muovo sempre sottovento sorprendo zebre, gazzelle, impala, struzzi, scoiattoli di terra, conigli. Ben più scomode delle acuminate spine dei cespugli, sono le pietre basculanti disseminate ovunque come trappole spezza-caviglie, sempre pronte a entrare in azione; poche volte il mio piede può appoggiare la pianta in modo stabile. In tutto ciò i momenti più difficili sono quando cambia il tempo, il cielo si fa grigio luminoso e la luce si diffonde nell’aria in modo quasi magico, ma spariscono tutte le ombre! Quindi non ho più la possibilità di decifrare la mia direzione, non avendo più nessun punto di riferimento. Son sicuro che in quella immensa distesa piatta e ripetitiva, a visibilità ridotta dagli invadenti cespugli, se avessi depositato una scia colorata al mio passaggio, dall’alto qualcuno avrebbe visto uno strano pastrocchio garbuglioso.
Poi, dopo svariate ore ricominciano gli incontri con i Masai. Stavolta invece di rispondere al mio saluto, che effettuo nella loro lingua, donne e bambini rimangono in silenzio o talvolta addirittura scappano. In un totale di undici ore e mezza di cammino, ho dovuto attraversare ancora inaspettati rilievi e valli, per arrivare a buio fatto e inoltrato. Stanco, ma felice... alla faccia dei Masai!!!
Puoi rileggere le puntate precedenti del Viaggio in Graziella sulla Via Francigena:
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