Vado verso Siena, potrei puntare verso San Quirico d’Orcia oppure Radicofani, però so che sarebbe ambizioso. Arrivo a Siena e mi dirigo in Piazza del Campo. Passo tra la folla, non è facile farlo senza devastare le caviglie di qualche turista. A Siena ci si deve andare, passare sulla Via Francigena in bici vuol dire anche passare di là. Entro in piazza, piazzo il cavalletto, mi metto in posa e faccio partire l’autoscatto, mentre la macchina scatta tutti si mettono in mezzo e così devo autoscattarmi decine di volte nella speranza di trovarmi anch’io nelle foto, magari senza davanti nessuno. Se avessi portato il telecomando della fotocamera adesso tutto sarebbe più facile, invece l’ho lasciato a casa risparmiando una decina di grammi nel bagaglio.
Ho fatto il mio dovere, un’altra foto nei posti in cui ci si “deve” fotografare.
Questo racconto fa parte del diario di viaggio a puntate scritto da Giancarlo Cotta Ramusino (in arte Girumin) che viene pubblicato in queste settimane. Potete leggere tutti i racconti già pubblicati nell'apposita sezione
Viaggio con la GOAT.
Siena... nel 2000
Ecco cosa mi è successo a Siena nel settembre 2000.
Stiamo andando a Roma in bici, ci fermiamo a Siena e attraversiamo il centro. Siena è sempre affollata dai turisti, ma stavolta ce ne sono veramente tanti e noi non sappiamo il perché. Appoggiamo le biciclette a un muro, io mi fermo a curarle mentre i miei compagni di viaggio scendono a visitare Piazza del Campo. Sta per arrivare un gruppo di persone che accompagna un cavallo, senza saperlo siamo arrivati proprio il giorno prima dell’edizione straordinaria del palio per il Giubileo del 2000. A un certo punto, proprio mentre arriva il gruppo che accompagna un cavallo, le bici appoggiate al muro cadono a qualche metro dal cavallo. È il panico!!! Non so come, ma alla velocità della luce riesco a riprenderle e riappoggiarle al muro, faccio appena in tempo a evitare il linciaggio, se il cavallo avesse urtato le bici non avrei avuto un futuro. Questo è un “quasi incidente”, una volta ho partecipato a un corso di protezione civile in cui un professore del Politecnico di Milano parlava della magnitudo e dei “quasi incidenti”. Raccontava che una volta gli si era staccato il tacco di una scarpa, si era piazzato sul balcone per affrontare la delicata operazione, stava inchiodando il tacco quando il ferro del martello gli si è sfilato ed è volato di sotto facendo un salto di quattro piani. Temeva di aver combinato un grosso guaio, ma la fortuna lo aveva assistito e il martello era atterrato senza fare del male a nessuno. Non usate il martello sul balcone!
Girumin vs Vento
Pomeriggio, sono sulla via Cassia, la strada è in buono stato, sono in discesa, con poche pedalate vado avanti un bel pezzo... Finalmente mi riposo un po’. Così spero, ma
il vento non la pensa allo stesso modo e si mette contro di me. Non lo fa a viso aperto, spudoratamente, non mi sfida direttamente, lo fa in maniera subdola e anche un po’ vile.
Non mi aggredisce di fronte, mi sfida su un fianco e mi frena, provo a stare in sella, ma non ci sono speranze. Non ci credo, non ci voglio credere, non può essere vero!
Non è forte, è fortissimo, ma sebbene arrivi da un lato ha comunque la forza di fermarmi. Io ci provo a smettere di pedalare, ma
non riesco ad avanzare, non guadagno neanche un centimetro, faccio una fatica bestiale. Mi fa arrabbiare, (la maestra delle elementari avrebbe detto che non si scrive “Mi fa arrabbiare”). Oggi la tappa è piuttosto lunga e l’arrivo è in salita. Farebbe molto comodo un po’ di discesa per risparmiare qualche energia, invece mi trovo in una situazione assurda,
sono in discesa e non riesco ad avanzare senza pedalare. Cosa faccio? Scendo e spingo. Certo che vedere davanti a me un rettilineo così lungo, diritto, ampio e senza traffico; con l’asfalto in buono stato e trovarmi a spingere...
È un po’ come andare al ristorante con il mal di denti. Come andare a Roma e non visitare il Colosseo, come andare a Parigi e non salire sulla Torre Eiffel, come andare a Berlino e non vedere il muro, come andare in India e non visitare il Taj Mahal, come andare in Mali e non risalire il Niger, come andare in Egitto e non passare da Luxor, come andare a Varanasi e non fare il bagno nel Gange, come andare in Cina e non percorrere tutta la muraglia cinese a piedi, come andare nel sud est asiatico e non farsi una bella scorpacciata di Durian, come andare al Louvre e non tentare di rubarsi la Gioconda, come andare a Montecarlo con una vecchia utilitaria scassata e non parcheggiarla in divieto di sosta, come entrare a Fort Knox e non portarsi a casa neppure un lingottino, come andare nell’area 51 e non dare un’occhiata ai marziani che la Cia tiene sotto formaldeide. Vabbé, credo di aver chiarito il concetto, so che avete capito.
Dall’Islanda alla Patagonia il vento è il nemico invisibile dei ciclisti, a molti è capitato di progettare un itinerario, studiare le tappe, le strade e i profili altimetrici, ma di
farsi fregare dal vento. In alcuni posti il vento non si limita a disturbare, a rallentare o a frenare. Ti impedisce proprio di andare avanti! Ti impedisce di tenere gli occhi aperti!
L’ingombro dell’insieme uomo-bici crea un grande fronte-vento, offre al vento una grande superficie con la quale il vento gioca a piacere e fa di te quale che gli pare. Anche quando il vento non è preoccupante può comunque essere un bel problema, perché il rischio è di percorrere dieci chilometri al giorno invece di cento. Se hai calibrato i giorni di vacanza per arrivare a prendere l’aereo che ti riporterà a casa, rischi di rimanere a spasso.
I percorsi, in alcune zone, vanno studiati in funzione dei venti dominanti, in qualche paese puoi andare da sud a nord, ma devi assolutamente evitare il contrario. Ci sono però zone in cui il vento va comunque dove vuole, un giorno ce l’hai alle spalle e il giorno dopo ce l’hai al contrario, anche se tu non hai cambiato direzione.
Una volta, in Mozambico, volevamo prendere una barca per raggiungere un’isola. Ne stavamo cercando una a motore, ma ci proponevano anche barche a vela. Era pomeriggio inoltrato, volevamo quindi evitare di viaggiare a vela di notte. A chi ci stava proponendo la barca a vela chiedevamo quanto tempo sarebbe durato il viaggio. Lui diceva che sarebbe bastata un’ora, ma non era molto convincente e noi insistevamo nel dirgli: “Sei sicuro che basti un’ora?”. Lui alla fine ha risposto dicendo: “Tu sei bianco e io sono nero, questa è una certezza, ma il vento non è garantito, nessuno lo può prevedere con certezza”. La morale è interessante e io me la ricordo bene, lui aveva ragione, però noi abbiamo poi cercato una barca a motore...
Radicofani sulla cima del cucuzzolo
La goccia d’acqua e il soffio d’aria nulla fanno quando sono da soli, ma quando si mettono insieme non c’è niente che li possa fermare... Non lo dico io, lo sanno tutti! Sarà probabilmente un proverbio orientale.
Vedo in lontananza Radicofani, avevo una mezza idea di come fosse fatta: una città in cima al cucuzzolo, ho cercato di convincermi che non fosse così, ma è così. Quindi, salta giù dalla bici e spingi!
Radicofani è esattamente come nei disegni dei bambini,
una montagna con una città sulla cima. Io non sono capace di disegnarla neppure in questo modo, se devo disegnare un torrente che scende dal monte lo disegno grande uguale dalla cima al fondo valle. Il cielo è nuvoloso, ma non mi preoccupa, son quasi arrivato.
Vedo il Monte Amiata coperto di nuvole, da queste parti c’è un detto che dice:
“Se il monte Amiata porta il cappello o che piove o che fa bello”. Se non ci credete venite a vedere di persona. (Lo so, c’è anche da altre parti, ma non è riferito al Monte Amiata.). Arrivo attorno alle sette, la signora che si occupa dell’ospitalità mi apre la porta dell’ostello. Incontro due pellegrini: un piemontese e uno spagnolo di Granada.
L’ostello è gestito dalla Confraternita della Misericordia e dalla Confraternita di San Jacopo di Compostella che ha sede a Perugia. L’ospitalità lungo il cammino si esprime in diversi modi ed è bello che sia così, è bello che si possano incontrare realtà diverse, ognuna con le proprie peculiarità e la propria missione che si organizzano e si mettono a disposizione. Modalità diverse vanno incontro a esigenze diverse, in cammino c’è chi è più disposto ad accettare tutto ciò che capita e magari dormire in condizioni disagiate e c’è chi fa più fatica ad adattarsi e necessita di un briciolo di comfort in più.
In questo ostello si sono unite le forze di una realtà locale già al servizio della comunità, soprattutto in ambito socio sanitario, e una realtà più legata al pellegrinaggio tradizionale che già si è espressa in molti ambiti promuovendo pellegrinaggi e scrivendo guide sui cammini. Molto bene!
Gomma bucata e la Robinia
Mentre scarico il carrello mi rendo conto che una gomma è buca: è la “maledizione della ruota". Ora non ho voglia di cambiarla, ci penserò domani. A casa avevo sei copertoni, gli unici due rinforzati, che ho elaborato aggiungendo all’interno delle strisce di tela gommata per ridurre il rischio di forature, li ho lasciati a casa. Quelli che ho portato non ho fatto in tempo a rinforzarli. Si buca sempre la destra perché è nella posizione più critica, è più vicina al bordo esterno della strada, trova sul suo percorso i rovi o gli spinosi rami di Robinia pseudoaacacia che cresce lungo il bordo di molte strade.
Il mio rapporto con la Robinia è molto tribolato.
Prima di tutto devo ammettere che non ho mai capito se si debba dire “la Robina” o “il Robinia”, è un po’ come quei nomi che non si capisce mai se l’ortografia e la grammatica li considerino maschili o femminili. Prendiamo per esempio i fiumi. Il Po è maschile, il Ticino è maschile, ma l’Adda è femminile. Vale lo stesso discorso per i canali, il Villoresi è maschile, ma la Martesana è femminile. Ovvero... Non ho mai capito cosa sia corretto dire, poca gente dice il “Il Martesana”, “Il Adda”. Comunque
io sono abituato a dire “la Robinia” e credo che per un po’ la chiamerò ancora così, magari un giorno capirò come dirlo correttamente, magari è già corretto così.
La Robinia ha un bel legno, verde/marrone scuro, con le venature ben marcate, però non viene molto usato in falegnameria. In genere finisce nel caminetto. In una soffitta ho trovato delle grosse tavole di Robinia, mi è stato detto che servivano per fare le dighe dei fossi. In Italia è una pianta infestante, cresce velocemente e dappertutto, i puristi cercano di evitare che si diffonda nei parchi perché è una pianta arrivata dopo la scoperta dell’America.
I ciclisti la temono, molti non sanno di temerla, ma in realtà la temono, magari non ci fanno caso, magari non sanno che fra i ciclisti e la Robinia c’è una guerra aperta, ma la prima volta che bucano e si trovano una spina piantata nella gomma si domandando da dove arrivi. Ci tengo però a dire che io non sto portando avanti una campagna contro la Robinia, non organizzerò manifestazioni di piazza e non proporrò interrogazioni parlamentari. Io apprezzo la Robinia e la rispetto, sia perché è un buon legno, sia perché è pericolosa.
Devo anche riconoscere che la Robinia manifesta apertamente la sua pericolosità, non è falsa, non è infingarda, non si nasconde. Si piazza ai bordi delle strade, non appare al momento meno opportuno. Lei è lì, la vedi, sai che c’è e sai che se le cade un ramo e tu ci passi sopra... puff... la ruota si sgonfia.
Sistemo le mie cose e vado al bar a cenare con i pellegrini. Il cammino è fatto di queste cose, di incontri imprevisti in un posto per caso e di cene con sconosciuti che stanno seguendo la tua stessa via. Con i pellegrini chiacchieriamo delle solite cose di cui parlano persone che non si sono mai viste, ma che si sono messe in cammino sulla stessa strada. Di pellegrinaggi, strade, sentieri, fatica, pioggia, vesciche, indicazioni sbagliate e/o incomprensibili, strade cambiate, ospitalità negata, spese folli per dormire o persone gentilissime e disponibilissime, cartine vecchie e obsolete, nuova segnaletica e cartelli in concorrenza fra loro. Nuovi itinerari e progetti per cammini futuri, per molti l’appetito vien mangiando e sono sempre alla ricerca di nuove mete da raggiungere. Devo studiare le tappe dei prossimi giorni, potrei andare verso Roma percorrendo la Francigena fino in fondo e poi risalire verso nord passando da Rieti e da Terni, oppure potrei puntare subito verso l’Umbria. A Roma ci sono già arrivato altre volte, a piedi e in bici. L’idea di entrarci con la Goat non mi attira molto perché in una grossa città non è facile muoversi e non mi entusiasma l’idea di passare del buon tempo fra auto e traffico. La Goat, in configurazione carrellata, non è un animale da città. La città repelle la normale bicicletta, come un organismo cerca di espellere un corpo estraneo, un virus malefico: lo espelle o lo distrugge. Solo il ciclista più testardo, come un virus cocciuto, insiste nel voler andare in bici dentro la città. Spesso il ciclista non vede l’ora di fuggire dalla città che lo respinge e a me preoccupa un po’ il transito con la Goat. Considero quindi la possibilità di svoltare verso l’Umbria nella parte alta del Lazio, si tratta di capire in che punto; devo valutare se arrivare fino a Viterbo oppure valicare prima. Dò un’occhiata ai possibili posti tappa, vedo che nella zona di Basti e del lago di Corbara ci sono alcuni campeggi, potrebbero essere dei buoni punti di appoggio, passando di lì potrei anche arrivare alla Romita di Cesi. Sì, ho deciso! Scendo verso sud, arrivo ad Acquapendente e poi piego verso est per entrare in Umbria.
Puoi rileggere le puntate precedenti del Viaggio in Graziella sulla Via Francigena:
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