Questo racconto fa parte del diario di viaggio a puntate scritto da Giancarlo Cotta Ramusino (in arte Girumin) che viene pubblicato in queste settimane. Potete leggere tutti i racconti già pubblicati nell'apposita sezione
Viaggio con la GOAT.
Verso Pontremoli
Per arrivare a Pontremoli c’è però un’alternativa, a Pavia anziché proseguire verso est verso Piacenza, si può scendere verso sud seguendo la Via degli Abati. Un percorso bello e interessante che spero si sviluppi in futuro, il solo problemino è che si tagliano tutte le valli trasversalmente, si sale e si scende, poi si risale e si ridiscende...
Si passano la Val Trebbia, la Val Nure, la Val di Ceno, la Valle del Taro e la Val di Magra in Lunigiana... Scusate se vi sembra poco. In totale sono quasi 200 chilometri, con dislivelli totali di circa 6.000 metri, sia in salita che in discesa. Attraversa molte zone che si stanno spopolando, si attraversano piccoli paesi quasi disabitati o in cui vivono spesso solo pochi pensionati. Le foto scattate dai satelliti di notte mostrano le città illuminate e in questa zona si vedono ben poche luci, ciò dimostra come la zona sia scarsamente popolata. Un futuro itinerario che la Goat non mancherà di affrontare. Arrivo a Terenzio, qui posso valutare se percorrere il sentiero o la strada asfaltata. Davanti a una casa una signora sta aspettando qualcuno:
“Scusi, vado di qua per Berceto?”
“Io non capire, io russa, io non capire italiano.”
Lei non capisce l’italiano e io non parlo il russo. La sola cosa che ho imparato da Gianna, in Russia, quando abbiamo ripercorso l’itinerario della ritirata del '43, lo scorso gennaio, è “Pustite perenočevat”.(3) È la formula per chiedere un posto per dormire, ma io non sto cercando un posto per dormire, sto cercando la strada... Vabbé, “Spaziba!”. E riparto. Mi sbagliavo, avevo imparato anche a dire “Spaziba”, cioè “Grazie”.
(3)Significa “Permesso di pernottare”. Si pronuncia: “Pustìzie pirinacivàz”, con l’accento sulla prima “ì” di “Pustìzie” e sull’ultima “à” di “perenocevàz’”. In cirillico si scrive: “пустите переночевать”.
Poco dopo il paese mi fermo alla fontana e incontro un signore che fa scorta di acqua, ha il bagagliaio pieno di bottiglie. Mi fermo a bere e facciamo due chiacchiere, mi parla della zona e dei funghi. Mi racconta di quando gli hanno venduto i funghi, ma hanno cercato di fregarlo sul peso. Dice che si è trasferito in zona anni fa per lavoro ed è poi rimasto. Di solito avviene il contrario e la gente cerca di andare verso città che offrono più possibilità di lavoro. È una delle tante storie dell’Italia minore, quelle che tutti oggi vogliono raccontare, perché rappresentano la verità, perché dicono come vive la gente comune, quella che con una vita normale costruisce la propria storia. Io non ho particolari storie dell’Italia minore da raccontare, però ho una domanda che riguarda l’Italia minore...
A cosa servono le bottiglie d’acqua che la gente mette in strada all’angolo della casa? Non le avete mai notate? In molti paesi si usa mettere delle bottiglie di plastica piene d’acqua a fianco delle porte e agli angoli delle case. Sapete a cosa servono? Servono a tenere lontani i topi. Non so, io non sono troppo convinto che i topi scappino davanti a un bottiglia piena d’acqua, perché dovrebbero farlo? Hanno paura dell’acqua? Questa cosa non mi convince molto.
Berceto, sterrato o asfaltato?
Sto per arrivare a Berceto, potrei stare sulla strada asfaltata ampia, comoda e tranquilla, oppure seguire un sentiero. Sarebbe un’ottima scorciatoia, preferisco però stare sull’asfalto. Faccio più chilometri, ma so che non rischio fatiche inutili. Arrivo a una curva, ecco l’inizio del sentiero, è qui che comincia, ma a me non interessa, non me ne curo.
Ho deciso di stare sull’asfalto, proseguo quindi sulla strada, sono convinto, la decisione è ormai presa... Ma è lì a pochi passi, invitante e interessante. La tentazione cresce, c’è una forza che non posso combattere, è il richiamo dell’avventura, non posso resistere, è più forte di me.
Avevo deciso di non imboccarlo, di non lasciarmi tentare, ma... è lì davanti, qualche metro... ci vado! Spingo un po’ e vedo la prima salita. Non potevo certo aspettarmi un’autostrada, un po’ di salita è giusto farla. Provo a spingere, faccio una fatica bestiale, più di quanto pensassi, più di quanto sperassi, ma ce la faccio. Dopo la prima salita ce n’è un’altra, ma se ho fatto la prima posso fare pure la seconda, non è certo il caso di tornare indietro, di spaventarsi per così poco. La salita si fa più ripida, mollo tutto e vado avanti per un’ispezione. Nel punto più critico il sentiero è franato, c’è un bel dirupo e c’è pure la staccionata di fianco per proteggere dal vuoto, il dirupo è proprio un burrone, un bel burrone. La staccionata protegge, ma protegge solo dalla vista del dirupo, basterebbe poco per abbatterla e volare di sotto, basterebbe il peso del carrello, basterebbe il mio peso. Non s’ha da fare... No! Non è sano fare questa salita, la cosa migliore è tornare indietro.
Torno quindi indietro, sgancio fra loro bici e carrello per portarli uno alla volta, piazzo la videocamera sul cavalletto a lato del sentiero. Così, se rotolo verso valle qualcuno se la riderà alle mie spalle. Resterà di me un ricordo, il ricordo di uno che non ha voluto stare sulla strada asfaltata...Ci penso e mi rendo conto che sto proprio cercando di farmi del male.
Qualche mese fa mi sono trovato in una situazione simile, ero su una discesa ripida e fangosa, con le foglie cadute e il filo spinato vicino, meglio di così! Ho dovuto trainare il carrello all’indietro fino al punto in cui la discesa si è fatta troppo ripida e il carrello mi si è ribaltato in faccia, ho preso una bella mazzata in testa e poi sono ripartito. Anche lì avevo piazzato la fotocamera, ma ero molto lontano e il filmato è veramente scarso.
Passano due ragazzi, chiedo a loro se ci sono altre salite, dalla risposta sembra una cosa banale, in effetti se avessi solo la bici lo sarebbe. Prendo la bici e la porto avanti qualche decina di metri per piazzarla in un punto piano. Torno a prendere il carrello e comincio a tirarlo in salita.
Quanto mai non ho messo i blocchi anti-indietro alle ruote? Qui sarebbero stati utilissimi! Li dovrò prevedere nella prossima versione del carrello. Salgo pian piano e sto bene attento a piantare i piedi come se li dovessi inchiodare. Scivolano, ho una pessima presa. Mi fermo a riflettere, appoggio il gancio di traino a terra, ma tengo comunque il carrello ben saldo, non lo mollo mai. Mi sposto in avanti con i piedi per pochi centimetri e tiro il carrello, mi sposto di altri cinque centimetri e tiro un’altra volta, vado avanti così per qualche metro. Arrivo al punto franato, se mollo in questo punto faccio un macello, sto bene attento a evitare che il carrello, in caso di rotolamento, mi possa tirare con sé.
Mi metto con le spalle a monte, praticamente mi siedo per avere il baricentro più basso possibile e tirare con il massimo delle forze mentre curo il dirupo lì davanti. Sono in una posizione scomodissima che mi obbliga a fare una fatica bestiale senza ottenere molto, guadagno la salita centimetro per centimetro, continuo a ripetermi che se fossi stato sano di mente sarei tornato indietro qualche decina di metri per riprendere l’asfalto. Arrivo in cima alla salita e raggiungo la bici. Il peggio è passato e sono felice che tutto sia andato bene, mi ripeto però continuamente che la prossima volta che mi troverò in una situazione simile tornerò indietro. Spero di ascoltarmi.
Dimenticavo: la discesa!
Riaggancio bici e carrello; vado verso le case. No! Non è finita!
La discesa! Non me la ricordavo, è lì che mi aspettava, una discesa asfaltata e ripidissima.
Il peggio che un carrellato, sia esso ciclista o camminante,
possa incontrare. L’ultima cosa che vorrebbe trovarsi davanti! Blocco i freni statici e scendo piano piano. Potrebbe sembrare più sensato scendere camminando e tenendo la bici per il manubrio, in realtà non è così. Se sto in sella il mio peso contrasta la spinta del carrello e riduce il rischio di rotolare a valle. La strizza aumenta e potrei entrare in panico da un momento all’altro, ma neppure stavolta me lo posso permettere. Le mani stringono le leve dei freni nella speranza che non si rompano proprio adesso, finalmente gli anni passati a far ginnastica alle dita hanno un senso, almeno
le dita non cedono. Non capisco se sto tremando perché la bici vibra o perché me la sto facendo sotto, ma questo non importa.
Cerco di stare in equilibrio; non è facile, i freni fischiano e il peso vorrebbe farmi accelerare. Mentre le suole si abradono sull’asfalto guardo dritto davanti a me senza muovere gli occhi nel timore che se li puntassi verso destra o verso sinistra potrei compromettere il mio equilibrio molto precario. Al mio fianco ci sono le auto parcheggiate sulle quali non vorrei proprio atterrare. Supero i momenti di panico e arrivo in centro, anche stavolta è andata bene. Se fossi stato sulla strada statale, invece di imboccare il sentiero, non sarei sceso di quota, così ora attraverso il paese e risalgo verso la strada principale per poi proseguire verso la Lunigiana.
Non mi fermo a Berceto perché ho ancora molta strada da fare e perché ci sono già stato più volte, però, a chi si incammina sulla Francigena, consiglio veramente di fermarsi. Berceto è un luogo molto significativo lungo la Via Francigena.
Passo della Cisa in Goat
Arrivo al passo della Cisa e scatto la classica foto, quella sotto il cartello. Questo è probabilmente uno dei cartelli più fotografati, io stesso ho già scattato diverse foto in questo punto e ne scatterò ancora. Tutti i ciclisti e i camminanti che passano di qua si mettono in posa. In molti paesi, su molte strade, ci sono luoghi in cui si “deve” passare, in alcuni luoghi i cartelli fanno la funzione dei notai. La foto sotto il cartello dimostra che sei passato di là. Si avvicina un anziano signore che cammina a fatica con due bastoni, lo vedo arrivare e lo saluto.
Questo è uno di quei momenti in cui il viaggiatore, camminatore o ciclista, ha il dovere di condividere l’esperienza che sta vivendo. Su di lui si riversa la curiosità e forse un briciolo di sana invidia di chi è attratto dall’idea del viaggio dello straniero, del forestiero, che sta vivendo qualcosa di diverso.
Il viaggiatore viene caricato della responsabilità di chi, anche solo per un attimo, vorrebbe viaggiare con lui. Magari non lo ha potuto fare perché non aveva la possibilità o non aveva le gambe buone. Magari avrebbe potuto farlo, ma non ne ha avuto il coraggio e forse rimpiange di non averlo fatto. È un momento in cui chi viene coinvolto deve saper rispondere in maniera adeguata, senza supponenza e senza paura di ricevere domande che potrebbero sembrare invadenti.
Sarebbe bello, per un attimo, fare il nipotino che racconta al nonno le proprie avventure. Forse gli farebbe piacere stare ad ascoltare questo tipo strano che se ne va in giro con una vecchia bici e un carrellino.
“Chissà da dove viene, chissà dove sta andando e come gli è venuta l’idea di andare in giro conciato in questo modo?”
Parlo con l’anziano signore della mia idea di partire con una Graziella, del percorso fatto e della strada che sto per affrontare. A qualcuno a cui ho raccontato che spesso la gente mi ferma quando sono in cammino, una volta mi è stato detto: “Perché non gli dici di farsi i fatti loro?”. Perché dovrei fare una cosa del genere? Sarebbe assurda una risposta simile.
Il cammino è fatto d’incontri, sarebbe un controsenso allontanare chi si avvicina per curiosità. Resta comunque difficile saper raccontare a chi chiede e vorrebbe per un attimo camminare con te. Dopo questa nota seria passo a una semiseria. Anche se non c’entra molto aggiungo questo episodio relativo al modo di vedere il viaggio fra giovani e anziani.
Una volta ero a pranzo con dei conoscenti, i due più giovani raccontavano delle loro avventure nei luoghi turistici più scontati, le solite cose, le notti insonni, la discoteca fino all’alba... tutte cose sentite mille volte. Intervenne uno più anziano con le solite raccomandazioni: “State attenti quando andate in giro, state attenti ai pericoli...”. Le solite cose fra generazioni, fra vecchi e giovani. “...Anch’io da giovane viaggiavo molto, una mattina mi sono trovato i carri armati davanti all’albergo, a Praga...” Lo so che questo episodio non c’entra molto, ma il problema è che lo scrittore combatte sempre con il numero di battute perché i libri sono fatti a multipli di pagine, ragion per cui chi scrive deve arrivare a un numero di battute ben definito, né troppe di meno, né troppe di più. Come vedete questa grande libertà di espressione si scontra poi con limiti estremamente terreni: il numero di pagine.
Puoi rileggere le puntate precedenti del Viaggio in Graziella sulla Via Francigena:
Viaggio in bici con Graziella | L'idea Viaggio in bici con Graziella | Il nome Viaggio in bici con Graziella | I preparativi Viaggio in bici con Graziella | Bagaglio e partenza Viaggio in bici con Graziella | Da Lodi a Fiorenzuola Viaggio in bici con Graziella | Seguendo il Po Viaggio in bici con Graziella | Digressioni sulla Goat Viaggio in bici con Graziella | Nell'ostello di Sivizzano Viaggio in bici con Graziella | Storie di sterrati e discese impervie Viaggio in bici con Graziella | Dalla Cisa a Pontremoli Viaggio in bici con Graziella | Lo zen della camera d'aria Viaggio in bici con Graziella | Pietrasanta in bici dal mare Viaggio in bici con Graziella | Polvere e catena verso Lucca Viaggio in bici con Graziella | L'ultima fatica per il convento Viaggio in bici con Graziella | San Gimignano e Monteriggioni
Ultimi commenti