Questo racconto fa parte del diario di viaggio a puntate scritto da Giancarlo Cotta Ramusino (in arte Girumin) che viene pubblicato in queste settimane. Potete leggere tutti i racconti già pubblicati nell'apposita sezione
Viaggio con la GOAT.
La strada... più facile?
Arrivo all’incrocio e mi fermo a riflettere: “Che strada faccio?”. Gli incroci sono sempre dei punti di non ritorno, sono i luoghi in cui si prendono le decisioni, si operano le scelte dalle quali magari non si può tornare indietro. Il bivio è sempre stato il simbolo classico delle scelte. Anche se hai camminato per chilometri e chilometri, anche se sei già stato di qua e di là, anche se sai leggere la carta con un colpo d’occhio, anche se hai valicato montagne, disceso fiumi, attraversato deserti e solcato i mari, puoi comunque sbagliare strada... non tutti lo ammettono, ma è così! Chi non sbaglia... Ma chi non sbaglia??? A volte non si tratta di errori, non è detto che la strada più facile sia quella “giusta”. Il viaggio è anche rischio. Se si vuole esplorare, conoscere, cercare cose nuove rotte bisogna mettersi in gioco e rischiare.
Che strada prendo? Quella nuova, larga, con una dolce pendenza, che ho già percorso, oppure la secondaria di cui non ho nessuna idea... La secondaria, ho deciso! Mi sembra ovvio, ho appena fatto un’elucubrazione sul senso della scelta, non posso certo fare la scelta più banale. Imbocco la strada e scendo. Sto pedalando da qualche centinaio di metri quando mi rendo conto che la strada non è proprio il massimo per il mio veicolo. So che quella principale è in buono stato e scende con una pendenza moderata e uniforme, mentre questa che sto percorrendo è più vecchia e ora vedo che è anche molto ripida. Vado avanti ancora qualche decina di metri fin quando l’istinto di sopravvivenza di cui ognuno di noi è dotato (chi più... chi meno) mi fa fermare a riflettere.
Ho la forte sensazione che il mio istinto mi abbia portato ancora una volta sulla strada peggiore, ma non ho voglia di tornare indietro e risalire. Sono qui per giocare e accetto anche questa sfida. Sì... cioè... mi sono sfidato da solo...
Blocco i freni statici e scendo ancora, i freni fischiano come la sirena di una nave, un urlo così tremendo lo sentono probabilmente in tutta la valle.
Mi torna in mente quando mi muovevo con l’Aermacchi nella nebbia padana, magari non mi vedevano, ma molto probabilmente mi sentivano. Una moto semplice ed essenziale, con il solo necessario, un telaio, un motore e due ruote. Non c’era il radiatore per il raffreddamento ad acqua di testa e cilindro, non c’era nessun controllo elettronico, non c’era l’accensione elettrica. A ogni accensione rischiavi di romperti la caviglia con la pedivella. Era un mezzo semplice da riparare.
Ricordi dal passato
In Mongolia ho viaggiato con un mezzo di probabile produzione russa, studiato per le condizioni più estreme. Un mezzo con sofisticati sistemi di navigazione satellitare? Un mezzo con un elaborato sistema di controllo delle ruote? Un mezzo con un climatizzatore studiato per affrontare la steppa siberiana, la Death Valley e il deserto di Atacama? No! Un mezzo semplice ed essenziale. Una scatola lunga cinque metri, alta e larga un paio di metri e quattro ruote. Tre file di sedili e i deflettori, quando avevi caldo aprivi i deflettori, quando avevi freddo li chiudevi. Il motore era seduto fra l’autista e il passeggero. La prima cosa che avevo notato era una guarnizione di testa infilata dietro il parasole del passeggero. L’autista era pronto a cambiare la guarnizione di testa!!! Quanti di voi sarebbero in grado di cambiare la guarnizione di testa della propria macchina??? Io no. Nel corso del viaggio ha riparato i freni più volte, ha rattoppato diverse forature delle gomme, una volta durante una delle tante soste che si fanno per sgranchire le gambe nel corso dei lunghi viaggi, aveva cambiato il carburatore e la ventola del radiatore... In realtà nessuno aveva avuto la sensazione che ci fossero problemi al radiatore o al carburatore, forse li ha cambiati solo per tenersi in esercizio.
Stavamo parlando dell’Aermacchi e della facile manutenzione. Una volta si è spento il motore mentre andavo, per fortuna ero a pochi chilometri dalla partenza e sono tornato a casa dei parenti spingendo la moto. Non potendo fare molto ho tolto il motore, l’ho messo nello zaino e l’ho portato a casa in treno senza sapere dove fosse il guasto. Qualcuno mi dice che viaggio sempre con lo zaino più grande del necessario, ma io ho dei buoni motivi per farlo. In quella occasione, se non avessi avuto uno zaino da 70 litri, non avrei potuto mettere un motore di una 125, raffreddato ad aria, dentro uno zainetto da pic-nic e neppure avrei potuto portarlo sottobraccio. Dopo aver cambiato treno un paio di volte sono arrivato a casa e ho portato il motore a Pierluigi dicendogli semplicemente: “Stava andando e si è spento, dentro c’è un guasto, ma non so dove.” Io dovevo ripartire subito, qualche giorno dopo sono tornato, mi ha mostrato un pistone bucato dicendo.
“Forse il pistone ha ceduto perché era vecchio. Non posso accenderlo, perché mancano dei pezzi, ma dovrebbe funzionare.”
Ho rimesso il motore nello zaino sono andato in stazione e ho raggiunto il telaio della moto a casa degli zii, il motore è ripartito, sono andato subito a fare il pieno in uno di quei distributori in cui la miscela si faceva ancora mischiando a mano olio e benzina. Di solito la facevo al 4%, ma per quella occasione, con il motore appena rifatto ero stato sul 10%. Sono ripartito subito e la moto ha fatto i settantacinque chilometri per tornare a casa senza problemi.
Stavamo scendendo verso Pontremoli... Questa strada si dimostra come temevo: stretta, ripida e pericolosa. Incrocio dei ciclisti in salita, chiedo loro se ci sono discese ripide, ma sono affannati e non mi capiscono, rifaccio la domanda e mi sembra rispondano di sì. Per un istante mi chiedo cosa fare, ma poi continuo a scendere. Ripida... ma quanto ripida? Avanzo ancora, ma non riesco a quantificare le distanze, il tempo passa e io non sto arrivando dove pensavo. Cerco di evitare di impastarmi contro una pianta, ma al tempo stesso devo tenere una velocità adeguata altrimenti arriva il buio e io sono ancora in giro nella notte tenebrosa. Decido finalmente di fermarmi e telefonare per cercare un posto per la notte.
Chiamo il primo numero, non risponde; chiamo il secondo, non risponde; chiamo il terzo, non risponde. Cerco di non preoccuparmi, ma mi preoccupo. Chiamo allora l’ostello di Sarzana, il parroco mi dice che può ospitarmi e che posso anche arrivare tardi, ma dovrei percorrere un’altra quarantina di chilometri e l’idea di farlo col buio pesto non mi affascina. Devo trovare una soluzione prima. Pedalo e arrivo a un paese, i cartelli stradali non mi aiutano, potrei andare a destra, in discesa, o potrei andare a sinistra, in salita.
Pontremoli dov'è?
L’esperienza mi ha insegnato che la strada più giusta è sempre quella più faticosa, così mi metto spingere la bici in salita. Chiedo a un signore che sta raccogliendo l’insalata nell’orto: “Scendi e prendi l’altra strada.” Buona notizia, per una volta la strada giusta è anche la più facile.
Torno sui miei passi, imbocco la strada e scendo con attenzione, appena incontro una salita o un pianoro pedalo come un disperato. Ritelefono a Pontremoli, ma non risponde nessuno. Uno dei telefoni da chiamare è spento. Perché non ho chiamato ieri? Perché non ho chiamato stamattina? Perché non ho chiamato nel primo pomeriggio? Se non trovo niente mi tocca infrattarmi nel bosco? Trovare a quest’ora un posto decente non sarebbe facile, soprattutto dentro una valle stretta.
L’idea non mi attira e ho quasi finito l’acqua, devo fare rifornimento. A breve arriverà il buio e io non riesco a capire quanto manca a Pontremoli. Scruto il fondo della valle nella speranza di vedere un tetto, un campanile, una strada, ma niente, non vedo proprio niente. Squilla il cellulare, è un SMS. Non ho tempo di leggere il messaggio. No! Un momento! Forse questo è importante! Una flebile speranza si riaccende in me, sacrifico una manciata di secondi sperando che siano ben investiti. Ottimo: il numero del B&B che stavo chiamando ora è disponibile. Lo chiamo subito, sono disperato: “Cercavo un posto per stanotte”. “Noi siamo in ferie, il B&B è chiuso...”. “Nooooo!!!”. “...Però posso darle il numero del B&B di una mia amica. Anzi, la faccio chiamare.” “Grazie!!! Lei fa di me un uomo felice!” Questa sì che è una botta di fortuna con la “C” maiuscola. (Non è mia la battuta, l’ho copiata). Ora sono più tranquillo ormai è quasi buio. Io, che sono furbo e ottimista, ho chiuso le varie torce elettriche e gli stick luminosi nel borsone ultrasigillato a prova di tempesta di meteoriti sul carrello. Non ho voglia di tirare fuori tutto adesso, ci metterei un sacco di tempo.
Ho lasciato a portata di mano tutti gli impermeabili per averli pronti in caso di pioggia, ma sono stato troppo ottimista. Ero sicuro di arrivare prima del tramonto, anche perché non ho nessuna intenzione di muovermi al buio.
Una volta, durante un viaggio in Africa, fin dal primo giorno ho sottolineato l'importanza di non viaggiare di notte. Perché in Africa non si viaggia MAI di notte!!! La prima sera dal nostro bus si è staccato il serbatoio del gasolio e siamo rimasti a piedi in mezzo al nulla. A dir la verità io un dubbio lo avevo avuto, quando, poco prima, durante il rifornimento, avevo visto che l’autista si era messo ad appiccicare una specie di pongo sul fondo del serbatoio, ma mi era stato detto di non preoccuparmi perché l’autista sapeva quel che faceva... Due ore dopo eravamo fermi in mezzo al nulla con il serbatoio che dondolava appeso al telaio del mezzo. L’autista si era sdraiato sotto il serbatoio e lo guardavo con rispetto e rassegnazione. No, il rispetto non ce l’avevo proprio perché avevo già capito che ci avrebbe messi in un guaio e la rassegnazione era più vicina alla disperazione. Anch’io mi sono poi sdraiato sotto il serbatoio per chiedere all’autista se voleva legarlo. Aveva accettato, ho quindi legato il serbatoio, ma ormai era entrata aria nel circuito di alimentazione. Ormai non era più possibile ripartire senza l’intervento di un meccanico.
Ho comunque indosso il giubbotto riflettente e il carrello ha i catarifrangenti. Non sono del tutto invisibile e poi conto di arrivare entro pochi minuti. Io pedalo e Pontremoli non arriva, il buio cala inesorabilmente, ormai se ne sono andate anche le prime ombre della sera... E anche le ultime... Ecco però che davanti a me appare qualcosa, sono delle case, entro nel centro abitato, ma... Non è Pontremoli! Passo lanciato davanti al bar con voce sostenuta: “QUANTO MANCA A PONTREMOLI?”.
“Un chilometro!”.
“CI ARRIVO SENZA FARMI STIRARE?”. Non attendo la risposta, pedalo e corro via. La luce dei lampioni mi conforta, mi rende visibile e mi dice che sono in arrivo. Ce la farò!!! Nonostante tutto arrivo a destinazione sano e salvo, vado in piazza e cerco il B&B. Con la corsa forsennata delle ultime due ore me lo sono guadagnato, se fosse per l’astuzia non me lo meriterei, ma almeno per la fatica credo di aver diritto a un posto tranquillo per passare la notte. La tappa di oggi era la più impegnativa della strada verso Roma, il resto è meno critico. Penso che potrei alleggerire il carrello e spedire a casa il superfluo. Potrei smontare le aste per il traino a spalla e togliere parte del telaio pensato per sostenere la bici piegata. Non lo faccio.
Il carrello potrebbe servirmi nella massima configurazione e poi vorrei mettere alla prova il tutto fino alla fine, tutto l’insieme uomo-macchina, senza riserve. Se sono arrivato fin qua in così poche tappe vuol dire che le cose vanno meglio del previsto, che il mezzo si comporta bene e le mie gambe pedalano più di quanto pensassi. Posso abbandonare gran parte delle mie preoccupazioni. Posso fare un bilancio intermedio: sono soddisfatto. E poi le aste di traino mi servono per stendere la biancheria ad asciugare... No, è una cosa che non faccio.
Non parcheggiare di fianco alla Goat
Vi racconto questo episodio, è accaduto in questi giorni, ma non vi dico dove. Dalla strada vedo il minimarket, mi conviene andare a far la spesa, attraverso il piazzale e fermo la bici in uno spazio fra il passaggio pedonale e le aree di sosta delle auto, ci sono molti spazi liberi. La Goat non ha un cavalletto, per farla stare in piedi metto carrello e bici ad angolo retto, così facendo si sostengono a vicenda e ogni volta rovino sempre di più la vernice del telaio. Blocco poi i freni a elastico sul manubrio. È sempre stato tutto in piedi senza problemi, bici e carrello così sistemati sono in equilibrio, ma stavolta sono più scrupoloso. Sto per entrare nel negozio quando penso che qualcuno potrebbe parcheggiare l’auto in fianco alla Goat e la Goat potrebbe cadere proprio in quel momento, riversando tutta la sua ferraglia sulla carrozzeria della macchina. Blocco allora i freni statici del carrello, così sono sicuro che non possa andare proprio da nessuna parte. Proprio in quel momento arriva un’auto, ci sono tanti posti liberi, ma ovviamente si piazza proprio in fianco al carrello. Faccio notare alla ragazza che c’è il carrello, che forse non riesce ad aprire bene la portiera. Dal finestrino magari non lo ha notato perché è basso. Spero che non urti il carrello con la portiera, se lo fa ribaltare non mi venga poi a dire che il carrello le è caduto addosso. Non poteva mettersi nella piazzola di fianco? Non poteva stare due spanne più in là? C’è il parcheggio vuoto... Lei apre la portiera. Per uscire effettua delle manovre da contorsionista, trattiene forse il respiro per passare in quel piccolo anfratto fra lei e la portiera, appoggia i piedi a terra come se stesse camminando sui carboni ardenti e pieni di cocci di vetro acuminati, sopravvive all’ardua manovra senza bisogno di entrare in prognosi riservata, ma non senza fatica e rischi per la salute. Lei entra in negozio... Io sposto la bici.
Puoi rileggere le puntate precedenti del Viaggio in Graziella sulla Via Francigena:
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