Crudo a San Daniele e lago di Cornino
Venerdi mattina prendo il treno per Udine e dò inizio al giro che intitolo “Frico–grappa&sette nani”. Messa giù la bici alla stazione prendo la strada per san Daniele del Friuli con un tempo ottimale a rincuorarmi sui dubbi che alcuni siti di meteo prevedono in costante evoluzione. Uscito sul lato est di Udine arrivo velocemente a Fagagna approdando poi a San Daniele del Friuli, nella cittadina rinomata per il prosciutto crudo davanti a un panino megalitico che assaporo seduto al fresco di un giardinetto prospicente la strada.
Chiacchierando con la signora dietro il banco conveniamo sulla miseria climatica della stagione estiva e mi da indicazioni precise su una deviazione da compiere per evitare una zona poco interessante a vantaggio di una che comprende la
riserva del Cornino. Puntando a nord arrivo a Cimano e
attraverso il Tagliamento giungendo in un bosco verde come fosse primavera. Solitamente in questa stagione gli alberi sono secchi, bruciati dal sole mentre ora passo un asfalto continuamente attraversato da scoli che scendono copiosi dai fianchi dei monti. Il
lago di Cornino mi si rivela come una gemma di smeraldo incastonata in una dolina e mi fermo per tributare una gentile visita ospitando nelle mie pupille la prima delle immagini d’acqua di queste splendidi vallate.
Passo Avasinis, che vanta una tradizione gustosissima per i frutti di bosco iniziando a scorrere la sponda sinistra del lago di Cavazzo dove entro in quella sorta di trance che mescola gioia, sole e aria sulla faccia, pedalando su una strada a dir poco pittoresca. Mi colpisce vedere la deriva sommersa di una barca a vela nella trasparenza cristallina delle acque. Chiamo a casa per comunicare la mia posizione e subito dopo aver dichiarato un sole estivo, alla chiusura della telefonata, inizia a piovere. Sono iniziati dei tornanti in salita che affronto con le gambe fresche e scattanti e le prime gocce ora diventano intense e pungenti. Indosso la giacca antipioggia e all’ iniziare della discesa che conduce al paese di Cavazzo smette e torna fuori un sole rabbioso. Tolgo la giacca e tengo d’ occhio i monti Piciad e Piombada coperti di nuvole che stanno scaricando non accorgendomi che mi arriva da dietro un violento scroscio che mi costringe a riparare in un ristorante. Poco male, è già l’una così approfitto per pranzare servito da un simpatico oste che mi offre un piatto di bigoli al farro con porcini. Uscito sazio noto con piacere che non piove e posso continuare con una certa serenità .
Il ghiaccio estivo di Tramonti
Attraverso di nuovo il Tagliamento nell’ omonima valle nei pressi di Tolmezzo e arrivo velocemente a villa Santina. Da questo posto in poi il clima si fa buio e le nuvole sempre più minacciose , a tratti piove e quello che vedo sulla destra mi preoccupa perché i monti sono oggetti di una pesante precipitazione bluastra. Continuo fino a Enemonzo e dopo Socchieve, taglio verso Priuso da dove inizia la scalata per passo Rest da quota 500 a 1060 passando per forca Priuso a 654. Prendo una prima scarica d’ acqua su tornanti abbastanza impegnativi, poi in discesa torna fuori il sole lasciandomi dubbioso sulle due alternative: la prima è di fermarmi con 85 km percorsi in rifugio Grasia oppure affrontare il tratto duro sfidando l’ incertezza climatica su 12 km di salita tosta.
L’ orologio dice che sono le tre e la testa ribalta ogni indecisione prendendo la via della salita. E’ una pendenza inclassificata, il gps non funziona tra i monti, il telefono non prende e il fiato diventa nucleare, sono costretto a soste frequenti controllando sulla mappa quel poco che rivela per avere una dimensione di quanto possa mancare alla fine di quell’inferno di asfalto, abeti e luce tagliente. Quando penso di avere finito con il budello di tornanti e di essere riuscito ad arrivare in sella noto con tristezza di essermi illuso perché si sale ancora inesorabilmente. Continuo con la tattica delle soste macinando sull’ ultimissimo rapporto con le gambe triturate in quel frantoio di curve e curvette. Dopo una svolta a destra appare come una palma sull’ Himalaya il cartello che segnala l’ inizio del girone del ghiaccio. Infatti si scollina e picchia immediatamente verso la valle Tramontina. Mi vesto di tutto punto indossando anche i guanti invernali, ma il freddo umido penetra nell’immobilismo sudaticcio ghiacciandomi le mani e arrivato a Tramonti di sotto dopo una picchiata a tratti a settanta all’ora mi fermo alla locanda Antica Corte dove trovo sistemazione per 35 euro. Mi ci vuole un quarto d’ora per riprendere sensibilità alle dita e dopo una doccia bollente mi sento come nuovo. Sono le 18 e 30, in orario sulla tabella di marcia e in linea con l’ obiettivo.
Ho percorso 110 km e fatto un passo impegnativo, quindi mi merito una pizza da fuori dieta!
Che la tragedia Atlantica abbia inizio
La notte passa buia e rilassante ma il mattino mostra chiaramente le sue intenzioni e le nuvolone nera sopra la nebbia bianca dichiarano apertamente ostilità a chi non viaggia coperto. Non appena termino la colazione e metto le ruote dal marciapiede inizia un estenuante picchiettare di gocce che diventano scroscianti dopo 5 chilometri di testa fissa e sguardo sulle buche nascoste dalle pozzanghere. In una fermata del bus alla fine del lago di Tramonti indosso tutto il corredo antipioggia incellofanando le scarpe. Da la in poi è una tragedia Atlantica e inizio a chiedermi quanto posso sembrare idiota a chi mi incrocia nel diluvio.
Purtroppo spinto dalla sensazione che tutto questo non muti decido di cambiare rotta scegliendo di arrivare a Maniago, abortendo la rotta nella valle che parte verso ovest da Navarons, per valutare il da farsi dopo 20 km di pioggia intensa. La prima tettoia disponibile a ripararmi è quella di un edificio che ospita un'agenzia di pompe funebri e finalmente al coperto mi spoglio verificando che malgrado i marchi rinomati di Vaude e Sportful gli indumenti sono inzuppati e hanno una tenuta alla penetrazione dell’acqua inconsistente mentre i piedi avvolti nella pellicola per alimenti da un euro e mezzo sono asciutti nonostante siano costantemente spruzzati dalle gomme che centrifugano la pioggia.
Consulto la tavola delle meglio applicazioni android e il suo responso mi condanna a una giornata senza speranza di miglioramento con un forte dubbio anche su quella successiva. Avrei dovuto cercare un hotel a Maniago e rimanere fermo a guardare un cielo di un grigiore inespressivo confidando nel giorno seguente.
Estate maledetta
Preso dallo sconforto, dal nervosismo e dalla rabbia decido di piantarla li con questo giro, di risparmiare un giorno di ferie, di archiviare quest'estate come un fallimento climatico e non meno irritante è la consapevolezza che la stazione del treno per arrivare a casa si trova a Pordenone che dista 26 km da dove sono adesso. Mentre torno ad indossare i vestiti bagnati la pioggia cambia di ritmo continuamente sospinta da folate di vento freddo da nord e nel ripartire scorgo con la coda dell’occhio la scritta pubblicitaria dell’ impresa di onoranze che mi rimane impressa mentre uso l’indice a mo di tergicristalli per pulire gli occhiali dall’appannamento e dalle gocce di maltempo. Viro verso sud sul rettilineo in leggera discesa nella pioggia forza cinque, schivo un branco di delfini, passo Scilla e Cariddi nella rotonda nei pressi di san Martino e in un ora sono in centro città.
Sono bagnato fradicio, con i vestiti che tirano da tutte le parti , grondo e mi devo di nuovo spogliare sotto un porticato per asciugarmi almeno un po’ prima di prendere in mano il telefono e consultare il sito degli alberghi. Individuo poco distante da dove mi trovo una sistemazione economica e stento a decidere se è meglio prendere un treno e fare rientro a casa piantandola lì con questo giro o attendere l’ indomani per valutare al mattino se vale la pena riprendere.
Il sito del meteo sembra rassicurante e promette per il giorno successivo una clima estivo e decido di fidarmi prendendo la stanza. Ho preso una infreddatura che stento a smaltire anche sotto la doccia di una stanza disadorna. Mi infilo sotto le coperte al suono di una ninna nanna televisiva e dormo un paio d’ ore. Scendo in strada e piove ancora ma ampi sprazzi di sereno celesteggiano in cielo come delicate promesse di future ore di pedalate gioiose. Nel centro commerciale vengo assalito da una noia mortale che dopo una breve spesa per un pic-nic da camera mi vede fuggire.
Starnutisco a ripetizione quindi evinco che anche la mia forma fisica del mattino non sarà delle migliori.
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Il sole risorge e la val Cellina attende
Al risveglio vedo che il sole fuori dalle finestre ingaggia battaglia ai nuvoloni sui monti ma l’azzurro predomina e quindi mi preparo alla partenza con la bicicletta verso la val Cellina. La cameriera mi serve una colazione ricostituente e dopo aver regolato il conto mi saluta augurandomi un buon proseguimento. Carburo lentamente, non forzo un'attivazione lasciando che sia il bioritmo a dettare le tempistiche di tutto quello che necessità per andare.
Parto alle dieci di un mattino fresco e umido, ripercorrendo a ritroso la strada del giorno precedente mentre la strada si asciuga al sole che irradia ormai pienamente giungendo a Montereale Valcellina verso mezzogiorno. Il borgo è tipicamente pedemontano e nel suo centro, mi fermo in una trattoria dove per pranzare ordino fagottini con radicchio e speck. Miserino nella quantità ma gustoso, mi alzo per partire alla volta del lago di Barcis forse con il giusto apporto di benzina per un motore che a causa della pedalata subacquea del giorno precedente non gira come dovrebbe.
La strada presenta subito dei tornanti che però terminano all’imbocco di una piccola galleria che alla fine si apre su uno splendido scenario di un invaso alpino che costeggio sul lato sinistro fino a quando mi infilo nel tunnel di quattro chilometri sotto il monte Fara. Infinito e gelido, buio e spaventoso nel considerare quanto sono strette le carreggiate. Pedalo con un occhio al margine destro e l’ altro nello specchio osservando quelli che giungono da dietro, procedo su una salita da tredici all’ora e dopo venti minuti finalmente esco dalla spelonca. Un paio di gallerie più brevi conducono infine sulle rive del lago di Barcis che insieme al suo borgo vale da solo la pena di fare la strada.
Più volte mi sono chiesto che cosa mi spinga a viaggiare in bicicletta e tra le molteplici risposte, forse una foto del posto può essere esaustiva. Pedalo conscio del fatto che dietro di me un dioscuro avanza carico di acqua per sommergermi di nuovo e in un paio di frangenti al mio fermarmi, mi avverte che ha quasi la mia stessa velocità, punzecchiandomi di pioggia.
Attraverso la valle del fiume Cellina in uno scenario montano tra i più belli e coreografici che abbia mai percorso, costeggiando dirupi e rapide spumeggianti, ammirando ghiaioni imponenti tra un verde luccicante sulla strada che si snoda docile e snella sul fianco a tratti destro e in altri sinistro.
Il Vajont e la tristezza
Dopo Cellino di sopra, all’incrocio con la strada per Claut prendo la direzione di Cimolais pedalando su una salita iperbolica che passato il borgo si incanala tra i versanti di due monti che la strozzano in tornanti da gran premio. Sant’Osvaldo segna il passo di sella, ma non termina subito perché si arriva ad Erto e Casso spingendo su un saliscendi assassino per il mio fisico posseduto dalla voglia di dormire. Cerco comunque sui ghiaioni che scendono dai fianchi del monte Zerten la possibile causa del disastroso inondamento fuoriuscito dalla diga del Vajont e giunto sul posto mi rendo conto che non c’entrano nulla ma che invece il materiale precipitato dentro il lago è terroso e mi fa strano che nessuno dei teschioni del tempo non abbia valutato l’instabilità del fianco destro del lago.
Sulla diga di sbarramento sull’orrido si può accedere solo con le visite guidate e ragionevolmente a pagamento. Provo un senso di repulsione guardando la gente che zompetta, urla e si diverte in un posto che è stato genesi di un'ecatombe. Mentre scatto un'unica foto al manufatto di cemento dall’ultimo metro gratuito, mi attrae il lamento di un paffuto bambino che con un panino tra le mani bofonchia a bocca piena alla madre la sua noia e la voglia di tornare alla macchina quanto prima.
Rimonto in sella alla starting grid di un semaforo che regolamenta il flusso a senso unico dei veicoli nello stretto delle gallerie che portano alla gorgo di tornanti sopra Longarone. Mi ritrovo tra una Ducati e una Yamaha che hanno più cavalli di un reggimento di Ussari, pronte a sgommare davanti a un pubblico tutto in piedi sulla Diga. Nel casco due paia di occhi ebeti fissano la lanterna rossa, hanno un sussulto verso le mie ruote da ventotto, si scontrano per un secondo e poi di nuovo ad attendere lo sparo di partenza con la testa fissata verso l’alto. Verde! Salto sul piede sinistro che affonda, stacco il destro da terra e lo aggancio iniziando a stantuffare le ginocchia assorbendo gli aromi di benzene e particolato degli scarichi delle moto che ruttano con fragore violento, una a destra e una a sinistra, li vedo in piega nelle loro tutone di pelle verso sinistra e poi scompaiono nella galleria. Penso che abbiano colto appieno il senso della gita in montagna e sono convinto che quando andranno in pista faranno foto a ogni metro del circuito e viaggeranno rispettando gli altri.
Mi fermo e lascio passare anche i quattro ruote scalpitanti prima che mi arrotino e infine lentamente esco alla luce dove sulla sinistra trovo la linea di partenza della direzione inversa con altri cinque centauri in fregola.
Pioggia o non pioggia, questo è il dilemma
La bici scende silenziosa a una velocità supersonica, in un tratto tocco i 60 all’ora e si accende la lampadina di un eventuale guasto ai freni o di un gatto imprudente che mi taglia la strada e allora per evitare tragici decolli rallento e mi godo scampoli di sole e panorami meravigliosi. Passo Longarone senza attraversarlo incanalato nel traffico sostenuto di vacanzieri che rientrano nelle città, con una stanchezza invadente che mi spinge ad affrettarmi per trovare una sistemazione. Noto che molte attività commerciali che danno sulla statale sono chiuse da tempo, che le insegne di alberghi di una volta sono icone di un abbandono frequente. Una discesa con una pendenza dolce consente un rilassante e distensivo trasferimento verso Ponte nelle Alpi che a dispetto del nome particolare non presenta particolari attrattive, che è spoglio di locali e alberghi e mi offre due alternative di locazione per la notte. La prima che tasto è quella dell’albergo Capri subito fuori dal centro, dove una signora campana mi propone una singola per 65 euro e al mio obiettare che per le mie tasche è un po’ troppo, mi fredda con una richiesta di 50 comprensiva di prima colazione. Anche se il costo è ancora altino, la mia stanchezza mi schiaffeggia sul collo e mi dice di non tergiversare oltre mettendo mano al portafoglio smettendo di fare l’avaro.
Sono le sei del pomeriggio quando un getto d’acqua ipnotico mi scalda la schiena in doccia e poco dopo con un ricambio pulito mi addormento in un secondo al distendermi sul letto. Alle 8 e mezzo mi sveglio di soprassalto con il dubbio di avere superato l’ora di cena e verificato di essere in tempo mi sfrego le mani per la puntualità e scendo a mangiare una pizza. Mentre divido a spicchi la cena penso al mattino seguente quando al bivio sarebbe stato il meteo a decidere quale strada intraprendere. Se sarà bel tempo, sereno e sgombro di qualsiasi nube pedalerò verso
Belluno, Feltre e Bassano del Grappa (110Km) ma al minimo accenno di incertezza o filetto di vapore acqueo in atmosfera, svolterò a destra per una comodissima volata sulla discesona che dal
lago di Santa Croce arriva a Vittorio Veneto (50Km).
La pianura veneta e si rientra
Alle prime luci che filtrano dalle tapparelle vado a pigiare il tasto che l’avvolge rivelando che a sinistra un immenso grigiore avvolge nuvolosamente la vallata che ospita Belluno mentre a sinistra sulla via di Vittorio Veneto un sole battagliero filtra tra poche nuvole che si spostano verso ovest ad incrementare la copertura e quindi se già ero orientato a un rientro comodo ora ogni dubbio era fugato. Raccolgo nelle borse i miei averi dopo una doccia tonificante e scendo a colazione dove scambio una chiacchierata con il figlio del proprietario che studia architettura nell’ateneo di Gorizia e confessa di ammirare Trieste, la sua gente e il mare che la bagna. Mi considero fortunato ad avere i natali a Trieste perché è un luogo che offre una centralità nel mondo che vado ad esplorare e che a sua volta dopo essere stata scoperta è piacevole agli occhi e ai sensi tutti in generale. Non ho ancora trovato un posto che possa essere meglio di questo.
La prendo comoda, e imboccata la via del lago metto sui pedali una forza che consente un viaggio di inerzia. Il clima è umido, l’ aria tersa e il sole sembra quello giallognolo di gennaio, con un taglio basso che accende riflessi lucenti su tutto quello che la pioggia della notte ha bagnato. Da dietro gli occhiali mi godo il lento ruzzolare della terra sotto le gomme, respiro a pieni polmoni ascoltando musica lenta, quella senza parole a disturbare una sensazione e il distacco dalla realtà diventa completo quando riconosco di avere già una volta percorso questa strada togliendomi l’impaccio di dover pensare dove come e quando girare. Limito la velocità sulle discese che trascinano verso la pianura veneta ma arrivo comunque rapidamente al centro di
Vittorio Veneto, dove le bancarelle del mercato creano un ridondante tumulto di merci colorate. Banchi di mutande, frutta secca e borse in vera pelle, formaggi di tutte le fogge e utensili da officina mi attraggono quando cammino con la bicicletta al fianco accodato a gente che passeggia ondeggiando con i piedi a papera, che palpa la seta di nylon dei cinesi, che azzarda un assaggio di crema tartufata, che si informa sul prezzo del pacco del lavoratore composto di otto paia di calze, sei mutande e tre canottiere.
La cittadina è bella, curata e i monumenti storici sono pregevoli nei decori, nell’ architettura senza eccessi, il giardino del parco è colorato da fiori che ornano aiuole con il manto erboso rasato di fresco. Finito il corso del mercato mi siedo per un break in un bar e consumo uno spuntino dolce mentre guardo gli orari del treno che parte da Conegliano che dista circa 15km da qui. Sono le 11 e 30 e il prossimo parte alle 12 e 55 e i successivi ogni due ore. Se fossi riuscito a prendere il primo sarebbe stato ottimo per un arrivo comodo a casa, nel caso contrario non avrei di sicuro atteso due ore seduto alla stazione pedalando piuttosto sulla strada per Venezia. La mancanza di traffico e la scorrevolezza mi fanno arrivare in stazione con largo anticipo, quindi prendo una rivista, faccio provvista di coca cola e snack e salito in treno corico la bicicletta nel vano predisposto, mi accomodo sul sedile accanto al finestrino di destra e tra una patatina e un ruttino, tra una pagina che parla dei templari e una chiesa che sfila veloce in un campo di mais, continuo il viaggio e mi assopisco contento d’averlo fatto.
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